GLOSSARIO RIFLESSIVO DI MIACULLA
In questa pagina raccogliamo alcune riflessioni nate dai temi della nostra newsletter mensile.
ISOLE
Su alcune isole si naufraga, su altre si cerca un approdo. Alcune isole si scelgono per la loro caratteristica solitudine. Su altre bisogna imparare a convivere. Altre si creano inconsapevolmente.
Partendo dal tema Isole scrivi su qualcosa che hai imparato o un aspetto di cui hai fatto esperienza in questi anni di vita comunitaria.
(o in base alle tue esperienze personali di vita anche non comunitaria)
Esempi: quando hai avuto bisogno del tuo spazio, di isolarti e mettere dei confini? Quando la collettività è stata a supporto e quando un ostacolo all'espressione dell'individuo? Quando hanno funzionato degli accordi relazionali e quando più lo spontaneo sentire? In che relazione sta la cura di sè con la cura degli altri?
In-solem dal latino: terra circondata dall’acqua. Fa più paura l’odore della propria terra o il profumo delle onde? Fa più paura stare da soli o diluirsi tra la gente? Sei più al sicuro in casa, o fuori? Forse la risposta è la veranda. Il bagnasciuga. Quel luogo che non è un luogo, e quindi non si può abitare Una zona grigia che non esiste sulle mappe Qualcosa che abita una spazio, per quello che è, che parla di fiducia e parla di confini Una sottile striscia in cui si è salvi Al riparo dal mondo, ma non troppo lontani da un “come stai?” La calda distanza di un estraneo e lo sguardo di un amico che ti conosce da sempre e non ti domanda Vogliamo sempre una scialuppa di salvataggio, una via di fuga dall’immensità Perchè andremmo in mille pezzi, a scegliere di essere pirati Ma ci si ammala di noia a battezzare una terra e chiamarla “nostra” Si cerca il brivido. Si cerca il nuovo. Si cerca una patria. Si cerca un modo di sopravvivere. Che forse non è altro che un modo di morire bene Un accordo tra la bestia selvaggia e la bestia addomesticata Un letto caldo e un giaciglio improvvisato Stare da soli per conoscersi Saggiare i limiti, Amare le imperfezioni, Perdonare uno sbaglio Stare con gli altri per conoscersi, Saggiare i limiti, Amare le imperfezioni, Perdonare uno sbaglio Le isole non sono che lembi di terra, collegati agli altri, solo più profondamente. Chiara
In questi anni di vita comunitaria, la cosa che forse più di tutte sto imparando è percepirmi io in primis come isola, in termini di accordi che prendo con me stessa e di scelte che faccio perché mi ho sempre di più a cuore. In secondo luogo, imparare a percepirmi come isola facente parte di un arcipelago, quindi di una rete che funziona solo se ogni isola riesce a respirare insieme alle altre, nel rispetto degli accordi presi insieme e nella fede verso le cose che sento profondamente "giuste" e legate a una dimensione d'amore, in cui alla fine dei conti non serve poi così tanto. Irene
Per raccontare la cosa che ho imparato di più del vivere insieme racconto la storia di un punto: un punto che ha la forma di un semplice punto, ed è abituato a vedersi e a mostrarsi così, ma quando è sicuro di essere solo gioca a sperimentare tutte le forme che può raggiungere con la libertà di giocare con la propria forma. Ecco, quando però non ha più spazi per essere solo e protetto dagli occhi degli altri, è costretto a portare tutte le sue forme ovunque si trovi, senza proteggersi per non farsi vedere, e scopre che non serve distinguere la forma che si ha dentro la propria stanza da quella che si ha fuori, che è un inutile sforzo in più. Così tutti possono conoscerlo per tutte le infinite forme che ha. Per me è andata più o meno così. Vivere con gli altri ti fa scoprire parti di te stesso. E ti insegna a giocare con tutte le tue forme che giocano con le forme degli altri. È incredibilmente liberatorio, scoprire che non c’è il giudizio ma la curiosità di vedersi. E che anche se ci fosse il giudizio puoi continuare a giocare come vuoi tu. È una cosa che imparo ancora tutti i giorni, che mi ricordo ancora tutti i giorni, perché ce lo ricordiamo a vicenda. Questo il motivo per cui si dovrebbe vivere insieme alle persone che scelgono di vivere insieme a te. In qualsiasi modo, forma, situazione, le possibilità sono tante, ma è l’unico modo per continuare a scoprire che le tue forme sono potenzialmente infinite. Elena
La mia isola è stata da sempre piena di gente, tanto piena da non riuscire a vedere i confini e, di conseguenza, non accorgermi dell' isola stessa. In questi anni ho notato i confini dell' isola perché qualcuno, forse più attento o con altre preoccupazioni, diceva "ho bisogno di uno spazio mio". Così in quel momento si creava uno spazio ed io vedevo i confini. Riconoscere più isole nella stessa isola è stato il lavoro di questo ultimo periodo. È stato difficile per me ad un certo punto lasciare andare l'idea dell' isola "Anellodebole". C' è stato un momento in cui ho visto il castello di sabbia sgretolarsi. Come un bambino nella battigia che ha lavorato sodo e si vede portar via la costruzione con una ondata. Ma nello stesso tempo ho sentito una grande solitudine. Piena. Bellissima. In quel momento, infatti, mi sono ricordato che io desidero davvero un arcipelago comunitario. Che il mio grande sogno è questa coesistenza terrena e celeste di diversità che hanno un orizzonte comune. E per farlo tutti i granelli di sabbia sono chiamati a deciderlo. Senza identificarsi in una isola ipotetica ma scegliere liberamente di costruirla. Visto che questa isola non c'è... eppure è già qui. Vincenzo
Leggo sul dizionario Treccani... "Isola in senso figurato indica un luogo difficile da raggiungere e in quanto tale rifugio ideale a cui approdare". Il più delle volte il termine è associato a desideri di solitudine - isolarsi.. "vado a vivere in un'isola deserta!" - a sentimenti di chiusura - isolamento.. "me ne andrei in un'isola lontana da tutto e da tutti!". Nel mio immaginario ISOLA è qualunque luogo in cui mi sento a CASA, rifugio ideale, ma molto concreto, in cui condivido spazi, tempo, emozioni, pensieri con i suoi abitanti. Spazio fisico d'incontro e relazioni preziose, privilegiate perché cercate, scelte e custodite con cura. La mia isola C'E', o forse meglio, le mie isole CI SONO e sono sempre e solo ISOLE FELICI perché riccamente abitate. Patrizia
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FILI
Quali fili ci continuano a collegare?
Quali ci legano troppo stretti?
Io credo sia importante che ognuno capisca che “filo” vuole essere e che “filo” è in questo preciso momento. Quando si cuce o si ricama capitano i nodi, gli ingorghi e anche gli strappi. Capita anche che i fili si intreccino mostrando un ricamo bellissimo e altri, invece, che risultino meno riusciti. Penelope sapeva perché tesseva la tela ogni sera. Aveva compiuto una scelta. Il suo ricamo sarebbe stato una diretta conseguenza della propria volontà. In un gruppo c’è chi ha definito meglio il suo sentiero, chi lo sta scoprendo e chi sta cercando il bandolo della matassa nuovamente aggrovigliato. Forse, in questo ricamo confuso dell’adesso, è importante essere sinceri con se stessi: dire “mi sono perso” oppure “si, questo è il mio filo e questo posso fare”. Tutti i ricami fatti sino ad adesso sono già esistiti. Sono bellissimi, ma guai se dovessero trasformarsi in una ragnatela. Finiremmo per dondolarci come lo stornello dell’elefante ed io voglio seguire la maestria e la dedizione di Penelope.
SCATOLE
Cosa tieni, cosa porti con te? Cosa lasci?
Cosa tengo: 1. scarpe e indumenti comodi 2. i quaderni vecchi con appunti della storia passata 3. i quaderni nuovi per la scrittura di una storia nuova 4. la cura innata, decostruita, reimparata 5. i sassi raccolti per mari e fiumi 6. parti di idee passate 7. lenti pulite 8. la foto di me da piccola, sdentata e in acqua di mare 9. il libro con i pensieri notturni di Franco Norma 10. questo punto racchiude tutte le cose da immaginare Cosa lascio: 1. il tavolo costruito da mio padre 2. una lettera per il figlio di Davide ed Elena 3. Teo 4. Cora e Circe, gli alberi che piantai nel giardino di Dimora 5. un po’ di paure (punto attualmente ancora in corso) 6. un po’ di idee 7. vecchie pelli e vecchi occhiali 8. il piercing tra i denti 9. la collina dietro Dimora 10. il campanile di Sant’Ilario Baganza Irene
Ho appena riposto nella nuova libreria i miei libri, fermi da un anno e mezzo dentro gli scatolini. Quelli li ho portati con me, forse sono una delle poche cose che mi fanno sentire a casa. Ho lasciato molte cose e ho provato a farlo con gratitudine. Ma che fatica lasciare andare.. alcuni progetti, un amore importante, volti e sorrisi costruiti nel tempo. A volte penso che sia un grande allenamento lasciare andare, forse uno dei più importanti, visto che ad un certo punto si lascerà andare tutto. O Forse no? Magari la nostra essenza è come quella di un grande scatolone, si riempie e si svuota continuamente, come il respiro, e questo scatolone immaginifico finisce per giocare nello spazio e nel tempo come la navicella di 2001 Odissea nello spazio. Per adesso e in questa gravità, di sicuro, pesano gli scatoloni. Quelli pieni e quelli vuoti. Vincenzo
Traslochi, scatole e scatoloni si muovono tra i pensieri, i discorsi e le idee già da 2 anni. Era giugno 2023 quando arrivò la notizia che Chiara e Vincenzo avrebbero dovuto lasciare casa in via Reverberi 1 e che non ci saremmo potuti stanziare qui, immaginare qui, realizzare qui. Oggi dopo 2 anni si sono presentate scatole e scatoloni con la solita fretta che appartiene all’uomo e alla donna del mio tempo: cosi…da un momento all’altro, incastrando gli impegni e facendosi in quattro. Ognuno per sè, ognuno a costruire (talvolata a rompere) le proprie scatole. Tra i miei scatoloni c’è ne uno ancora in preparazione, che ha bisogno di tempo e leggerezza. Mi sento in ritardo perchè arrivo sempre di fretta! Ho chiamato questo scatolone “Tranquillo”. Ci sto riponendo la pazienza, la calma e una visione critica che possa delimtare tutta questa frenesia che caratterizza me, l’ambiente che ho intorno e il mondo che vivo. Sto leggendo molto in questo periodo, soprattutto letture in direzione del parto, della maternità e del bimbo. Per chi non lo sapesse diventerò papà e parte dei miei scatoloni vanno a preparare proprio un nuovo periodo della mia vita, un nuovo studio universitario in cui gli esami sono quotidiani! Ho scatoloni pieni di amore e ricordi, altri colmi di idee per domani e altri densi di solidarietá e comprensione, di creatività e ambizioni. Nel mio scatolone Tranquillo ho riposto un pò di fastidio, ma anche un forte impulso cardiaco che mi fa dire: “non è cosi che deve andare” , o anche “è possibile che mi ritrovo a dover fare sempre 10 cose tutte insieme?” Dico “fastidio” perchè lo riconosco, è tanto che l’osservo e mi sento condannato a dover navigare su questa percezione del tempo veloce, repentina, impaziente. Mi spiego meglio Un libro che mi sta incuriosendo si chiama “Per una nascita senza violenza” di “Leboyer”, ed enucia che per avvicinarsi al bambino, empatizzare con un piccolo essere che muoverà i suoi versi ad ottobre, per avvicinarsi al suo punto di vista, a ció che vive, è necessario rallentare, tornare ad uno stato silenzioso in cui l’attenzione è sul respiro, perchè è proprio quel respiro, il primo, che ci fa saltare “dall’eterno per entrare dentro al tempo”. Quel fastidio appartiene alla mente. La mente è nel tempo e macina ragionamenti, congetture, idee, fastidi, bisogni, esigenze, aspettative e sogni. La mente ruota intorno agli impegni, oscilla intorno agli appuntamenti da incastrare; la mente che percepisce l’invecchiamento, lanstessa mente che comprende l’applicazione del principio di conservazione dell’energia (nulla si crea, nulla si si distrugge..tutto si trasforma). Quella mente, questa mente è distante anni luce dal bambino, è distante dal regno vegetale, distante dalla natura e dalle meccaniche celesti. Quella mente è separata, dualistica, da tempo bloccata nella decretare “giusto o sbagliato” e oramai lanciata oltre, in direzione di uno spazio-tempo virtuale, una realtà virtuale. Il bambino nella pancia invece è nell’unità totale, sperimenta la simbiosi con la madre, ma anche l’incontro tra dentro e fuori: sente tutto ed è protetto. Non conosce il freddo perchè è protetto, non conosce la luce, è al buio e quando la pancia è bagnata dal sole, dall’inteno una nebbiolina dorata si espande e avvolge la creatura. Il bambino quando compie il primo respiro è come se inalsse fuoco, il primo respiro, il primo gonfiare del polmoni è un evento, un fenomeno, l’accensione del motore. Il primo respiro è il punto, il completamento del miracolo. Come posso rallentare per avvicinarmi a lui? O lei? Se ascolto il mio fastidio sento che è giusto, è un campanello d’allarme che mi dice che non posso correre, che è vero “chi si ferma è perduto, ma si perde tutto chi non si ferma mai”! Quel libro che citavo, il fastidio per la frenesia, il mio scatolone tranquillo, mi portano qui, ad esclamare questo: “Imparare la contemplazione”! È necessario far respirare la mente, mettere il cuore sopra la testa e accogliere il tempo senza rincorrerlo. Avvicinarsi alla contemplazione significa per me osservare la creatura che si forma, che lentamente richiama l’attenzione. Nella contemplazione posso permettermi di stare fermo a guardare come la vita si manifesta. Ciò che mi rende triste è che ritaglio questi spazi con fatica! Il contesto che sto costruendo intorno a me, quello che chiamo Anellodebole, è ancora troppo rapido, troppo volece, troppo mentale. Il mio cuore inizia a chiedere tempo e lentezza per questa vita che arriva ed io in primis devrò essere l’esempio, l’ambiente intorno a me dovrà esserne l’esempio. Come posso accostarmi alla lentezza del bimbo se sono immerso in questo sistema che scorre veloce? Voglio non dimenticare il tempo del cuore, il vuoto che riempie il conflitto, la scala che porta sopra il bene e il male. Per la madre di mio figlio, per me e per mio figlio stesso desidero il tempo lento della comprensione e dell’ascolto, ambendo ad un armonia tra corpo, emozioni, pensieri, desideri e realizzazione. La parola chiave è sempre “scelta”. Io sto scegliendo questa indagine, mettendo parole e meditazioni nei miei scatoloni. Questo lo porterò avanti con amore e resilienza, che sia a Sant’ilario baganza, a Nova Cana o in Palestina. Non importa il luogo, il mio terreno di gioco è nella relazione e nella comprensione dell’amore, che ha un altro tempo, un’altra qualità del tempo che non è lo scorrere, ma l’esserci! In questo “tranquillo” scatolone meta-narrativo, che ripongo in questa newsletter, ci metto questo desidero: cogliere la lentezza, la contemplazione, l’amornia e la scelta individuale che incontra quella dell’altro, per l’umanità tutta e per il bambino, in senso archetipico e in senso di manifestazione divina, sperando che la mia individualità e la collettività che mi circonda possa far sentire il bambino accolto, amato, aldilà della fretta realizzativa, vicino alla lentezza della creazione. Davide
Lascio la mia stanza, la sua conquista attorno ad un tavolo, i successivi sensi di colpa. Lascio la simmetria che si è composta lentamente al suo interno, il gioco di equilibrio dei colori e dei sentimenti. Lascio alcuni vecchi abiti che hanno trovato posto in altri armadi, me ne porto alcuni nuovi, ricevuti da altri armadi. Mi porto il tappeto e il puf rosso, qualche domanda in ricerca paziente di risposte, tre hard disk e non so quanti circuiti neurali pieni di memorie in cui cercherò di non sostare troppo. Tengo l'allenamento a vivere il presente, l'accoglienza data e quella ricevuta, il desiderio di non rinunciare a credere in assoluto in ciò che non si è manifestato. Chiudo alcuni scatoloni da lasciare a una me più grande, che abbia l'entusiasmo di riaprirli con cura. Maddalena
Non voglio fare questo trasloco Non ne capisco il perchè Mi dispiace, mi addolora, mi rincresce Non riesco a fare gli scatoloni Non trovo gli scatoloni Poi li trovo Erano nel sottoscala Ma perchè gli scatoloni? Non bastano delle buste? "Eh ma gli scatoloni fanno proprio trasloco, è più bello" E allora facciamo gli scatoloni Facciamo ciò che è bello E già che va fatto, facciamolo bene Lasciando il loco d'origine in ottimo stato Bello, vivo, pronto per la vita che arriva A volte l'unico problema è non avere un vero problema Le libertà inconsistenti sobbollono di fronte a te Poi arriva la Vita Ti dice cosa fare. Lo fai Lei poi ti chiede: "ora cosa vuoi?" E capisci che ora sai volere. Filippo
In questo giugno lascio fuori tutto quello che ho cominciato a pensare solo perché mi ci sono abituata. O almeno ci provo, a riconoscere cosa deve restare fuori dalle scatole (in tutti i sensi). Quelle forme a cui non fai più attenzione, dopo un po’ che le hai sotto gli occhi, le piccole attenzioni quotidiane che hai cominciato a trascurare senza deciderlo, quegli spazi che ora ti danno fastidio, quando prima bastava farti i beneamati affari tuoi e assomigliare alla persona più tranquilla del mondo. Sicuramente io sto cambiando in molte cose, e credo non si resti sempre uguali, mi è difficile pensarlo e forse è meglio così. Ma sono sicura che giochi un buon ruolo anche l’abitudine. Quella che trasforma lo sguardo se non ci badi. Non siamo più dentro l’idea che abbiamo costruito tempo fa, e i frammenti di realtà a volte si scontrano con il tempo dilatato di una condizione transitoria, di quando ti convinci di vivere dentro un compromesso, anche quando sai benissimo che puoi scegliere tutti i giorni dove stare e come starci, a modo tuo. Lascio quindi la pesantezza di un’abitudine comoda ma dissonante, sapendo per certo che il mio sguardo crea la mia realtà, e che se voglio vedere gioia e serenità intorno a me, devo portarla io per prima e soprattutto direzionare il mio sguardo verso quello che cerco. Sono sempre io a scegliere cosa guardare di ciò che ho intorno. Tengo, invece, il tempo delle cose importanti. Benedetto il tempo delle cose importanti. È il tempo che ti permette di riconoscere che appuntamenti doveri &co. non sono così importanti come pensi da tutto il giorno, e che la fattura la manderai domani, e chissene frega, ora sei stanco e vuoi leggerti un bel libro in veranda al tramonto o parlare con qualcuno con cui non parli da un po’, senza la scadenza di un’ora, senza avere la testa da un’altra parte. Sono contenta del tempo delle cose importanti. Sa rimpiccolire tutto. Poi tengo la semplicità di parlare in modo sincero tra persone. La voglia di andarsi incontro, sapendo che ogni battibecco serve a crescere insieme. Che anche se quando sei offeso hai solo voglia di fare l’offeso e andare nella tua stanza a pensare a quanto sei offeso, resti e tiri fuori direttamente quello che ti sta passando in mezzo alle viscere. E puoi sentirti incredibilmente nudo, protetto e leggero perché hai mostrato semplicemente chi sei e subito è diventato tutto più facile da capire. Lascio l’idea di un ipotetico futuro insieme in un luogo capace di accogliere persone alla ricerca, tengo la fiducia e la fede che se ogni secondo della mia vita lo dedico a quello che desidero costruire per il futuro, nel cercare il mio posto, la mia funzione, i valori che ho sentito essenziali, le cose arriveranno e ognuno avrà il suo posto con una forma esatta corrispondente, in cui essere comunque insieme. Elena
CONFLITTI | POSIZIONAMENTI
Come ti poni nei conflitti? Dove trovi posto? Come reagisci alla violenza nel mondo?
Irene: È un po’ di tempo che osservo le reazioni che mi provoca il tema del conflitto in cui siamo immersi, e la sensazione che ho quando se ne parla è che si possa andare più a fondo nella questione. Qualcosa mi fa dire “si, ma non credo che sia la guerra il punto”, o perlomeno l’unico punto. Per mettere più a fuoco questa sensazione, tempo fa feci una breve ricapitolazione dei miei ultimi anni, a partire dal 2018, anno in cui iniziai a frequentare l’ambiente dell’attivismo. Ricordo bene che in quel periodo mi avvicinai a un certo tipo di pensiero e di azione perché profondamente mossa dalla rabbia. Rabbia perché quel che vedevo fuori da me era come se parlasse una lingua che non comprendevo. Solo alcuni anni dopo capii che non comprendevo la lingua perché io in primis non sapevo quale fosse la mia. Di conseguenza mi fu chiaro che in realtà il vero motore fosse una mancanza, e la rabbia nient’altro che una maschera di cera destinata a sciogliersi, perché è vero, il mondo a volte brucia. Una volta compreso questo, ho iniziato seriamente a interrogarmi su quale fosse la mia posizione nel mondo, ma soprattutto su cosa volessi comunicare e come farlo. E al momento la risposta che mi sono data è: bene, intanto è necessario che io mi assuma la responsabilità della mia vita, quindi che io mi chieda cosa è che voglio. Che forse è il vero punto di partenza, di tutto, per poter essere nel mondo e non del mondo. Tempo fa, in uno dei miei momenti di riflessione sull’esistenza, misi meglio a fuoco questo passaggio in una lettera che scrissi alla vita che Elena porta in grembo, che finiva così: “Caro figlio, mi rendo conto di star portando questioni molto aperte. Sento però profondamente che sia questo il punto: interrogarmi, interrogare, rispondere, mettere in discussione e, quindi, non chiudere, ma aprire dei varchi, così che la vita possa scorrere oltre i sentieri già tracciati. Questo desidero lasciarti.” Ecco, allora oggi mi chiedo: se io iniziassi da chi mi è più prossimo, e tu iniziassi da chi ti è più prossimo, e lui iniziasse da chi gli è più prossimo? Cosa accadrebbe?
Laura: Solitamente scappo. Quando riguardano me. Se sono in un conflitto tendo ad annuire, convincendo il mio avversario che ha ragione, poi giro l'angolo e penso e faccio comunque quello che mi pare. Mia madre, quando ero adolescente, mi odiava per questo. Oppure cerco di trovare una mediazione, una sorta di strana manipolazione che tende a mirare all'emotività dell'altro per trovare una soluzione comune. Sicuramente, tendenzialmente, evito lo scontro e questo spesso, significa anche evitare il confronto e quindi, a volte, mi sforzo di farlo, ma non è un meccanismo che mi è proprio naturale. Non significa non essere sinceri, ma neanche mi sento al mio posto nel provocare gli altri anche se a volte ammiro chi riesce a farlo con puntigliosità e cura (a volte andare a diretti al punto mi sembra sano). Di contro credo di trovare spesso il mio posto nell'azione individuale. Nel cercare ogni giorno di scegliere di essere la versione più gentile di me e di scegliere, in generale, da che parte stare nelle azioni quotidiane. Nel riconoscere il mio privilegio mettendolo al servizio, nel mettermi a servizio e basta. Credo tanto nell'alimentare le possibilità di bene in me e intorno a me e che questa sia l'arma che ho per combattere le guerre lontane. Ho una parte di me che è disillusa e cinica, che di fronte alla violenza non si stupisce ed anzi, mi sembra di comprendere tutto, di dare una spiegazione a tutto e di non potere cambiare un sistema così tossico se non partendo da cosa decido di essere alla mattina. Comunque mi sono stupita tanto delle piazze piene di questi giorni. Il mio termometro emotivo, quello che mi fa piangere di fronte alle cose che trovo potenti, mi ha portato più volte a lacrimare nel vedere tanta collettività in movimento. Ma comunque, il mio cinismo mi fa alzare la mattina e pensare: la coscienza collettiva e quella individuale funzionano se vanno di pari passo; e a volte ho avuto la sensazione, mentre ero in manifestazione, che il movimento che ci portava in piazza fosse tanto orizzontale e poco verticale. Poco cosciente, ecco, e questo un po' mi spaventa, perchè in questo modo si possono fermare le guerre ma, se non si trova il germe, la storia si ripete. Ma comunque, intanto, è importante muoversi.
Elena: Solitamente nei piccoli conflitti della mia vita, il mio posto è nel mezzo. Se ci sono due fazioni di pensiero, due persone che litigano, due parti che giocano alla ragione, mi trovo sempre nel mezzo. Che è quel mezzo fortunato nel poter dialogare con entrambe le parti, ma anche sfigato nel non sapere in che ruolo stare per risolvere qualcosa. Ne sei tecnicamente fuori, ma è impossibile non sentirsi comunque coinvolti. Che responsabilità ho di questo conflitto nella mia posizione? Quanto è giusto provare a mediare, portare il proprio punto di vista da fuori, che possa mostrare qualcosa di diverso a chi è determinato a restare nel suo, quando le due parti stanno scegliendo di stare nel conflitto? Finora ho risolto ben poco, provando a mediare, se non agendo tra le righe con piccoli movimenti non riconoscibili, con qualche effetto solo dopo un bel po’ di tempo. Ma quando esplicito, mai. Ultimamente penso sia perché le parti sono in conflitto perché lo vogliono, quel conflitto. Vogliono godersi un momento in cui raccontarsi nella testa tutte le motivazioni per cui non cedere al passo indietro, o in avanti. Credo nel “vince chi molla”. Per un ordine di priorità che mette davanti l’amore senza orgoglio rispetto al dolore mascherato da rancore. Perché nel conflitto, la rabbia che provo, è la mia, il dolore che provo, è il mio, e alla fine del giorno, di chi sono responsabile, se non di quello che appartiene a me? E allora perché non dovrei essere io soltanto a curare le ferite, la frustrazione, la delusione o la paura, se appartengono a me, e mi plasmano da dentro, invece di cercare una causa nel fuori di me? Se mi chiedo questo nella piccola cerchia di persone che mi gravitano attorno, ed è difficile trovare risposte, si aggiunge una questione ancora più grande. Cosa sta alla base del conflitto, quello tra due amiche e quello tra più parti del mondo? Che posizione prendo io, oltre a dichiararmi contraria alla guerra e alla violenza? Che responsabilità ne ho io, come posso agire per cambiare? Tralascio l’ondata di propaganda che purtroppo ma poche volte per fortuna ci sbatte in faccia quello che accade senza ritegno, costruendo narrazioni basate su titoli accattivanti con nomi importanti, finendo sul mainstream, sul dualismo a prescindere, sul raccontare prima di lasciare davvero un messaggio, perché non si parla di questo ora. Se ora al centro del tavolo c’è un enorme conflitto fatto di violenza e di interessi politici, guardo con dolore a questo così come al resto dei conflitti che si muovono nel mondo con altrettanta atrocità da anni, ma con meno risonanza. E quello che posso fare ora riguarda due azioni: continuare ad agire nei conflitti che vedo tra le persone intorno a me, mosse dallo stesso germe primitivo che, sono sicura, parte dal litigio fra due bambini e finisce in una guerra mondiale, non infischiarmene a prescindere e allo stesso tempo non alimentare la divisione, e distribuire amore in ogni cosa che faccio, ogni persona che incontro, ogni cosa che si manifesta nella mia giornata, come medicina che posso propagare, e come unica mia possibilità di sciogliere prima di tutto i conflitti che sono dentro di me ogni volta che scelgo di non portare amore, e quindi, ogni volta che scelgo di portare il conflitto fuori.
Davide: Il sole è alto a Sant'Ilario Baganza, la luce scalda e la collina di riflesso riverbera l'oceano verde. Sono giorni di attesa, la mamma riposa, il grembo è pronto, non resta che aspettare l'evento più grande della mia vita: diventare padre. Scelta e responsabilità, questo mi dona mio figlio. Mi sento pronto, anche se sono molto teso ed emotivo, traballo sul pensiero del domani, ma mi dico che sarò pronto, non è la testa a decidere, ma il cuore, la volontà che posso generare. mi trovo in questa bolla bucolica sorretto da una famiglia allargata che cura questa nascita, mi è difficile restare fermo, immobile, e continuo a chiedermi cosa sia davvero la contemplazione. Intanto la collina sta lì, come ieri, come quando mi sono trasferito qui circa 4 anni fa. Intanto il mondo là fuori sembra impazzito. una gravidanza che non porta vita. è dal 2019 che non mi sento più parte di questo tempo, che non mi rappresentano le scelte politiche, è dal tempo del covid che mi chiedo dove sia l'amore verso l'umanità e intanto oggi sono costretto a guardare come un osservatore figlio del cinema, figlio di Truman Show, una guerra in prima visione che smuove gli animi. Intanto l'ipnotico social network riempie la mia mente di immagini che non so comprendere, vedo oggi che ritornano le folle, ritornano le masse in piazza e mi sembrano gli anni 60, intanto io qui nella mia stanza a sognare il volto di mio figlio/a. Mi chiedo se tutta questa solidarietà non sia a sua volta soggiogata dall'informazione. Mi chiedo cosa sia la comunicazione, perchè ogni mia messa in discussione genera conflitto, poche possibilità di dialogo e mi chiedo quanto questo dipenda da me. Sarò bravo a comunicare con mio figlio? saprò orientalo verso un orizzonte di scelta e responsabilità? saprò essere d'esempio? sono in grado di mettere in moto l'amore? Intanto le notifiche invadono il mio campo e mi ritrovo catapultato nel mondo della notizia. Mi accendo di entusiasmo quando parlano di Flottilla, mi incendio di rabbia quando vedo distruzione. Poi mi riapproprio del mio tempo e mi accorgo che ho passato ore a nutrirmi di una realtà virtuale, narrata, che non ha a che fare con questa collina, l'unica che sappia raccontarmi del mio presente vivo, l'unica che in questo momento sappia entrare in contatto con le mie sensazioni, con i miei sensi. Si genera dentro me il conflitto e mi chiedo "Quanto tempo perdo davanti allo schermo? Quanto tempo vivo? Quanto tempo spendo attorno a quel bisogno d'amore che tanto desidero?" Ancora una volta le notifiche mi distraggono, a volte sono messaggi di amici, altre messaggi di lavoro. Questa iper connessione non mi permette di comunicare totalmente con me stesso, spesso mi sento ipnotizzato, assorbito dalla mia stessa sete, travolto dalla mia stessa ambizione che non lascia spazio alla contemplazione. Mi spaventa l'idea della guerra e ripenso a Le Bon "psicologia della folla" e vedo le piazze cariche di solidarietà verso Gaza, ma vedo anche il rischio della folla, in cui per sostenere un ideale si perde la volontà individuale. Arrivo a chiedermi se anche questo non sia pilotato dalla propaganda a tal punto da spingere i governi a riarmarsi, alzare i muri, amplificare la sicurezza perchè le strade e i popoli sono in disaccordo. Più penso a questo e più mi si addice il termine complottista, più questa parola si fa viva nella mia mente, più penso che è un termine che non mi appartiene, io che non creo complotti, ma immagino momenti di festa per far incontrare gli amici, per conoscerne dei nuovi. Sono più di 5 anni che osservo la parola volontà e come questa si manifesta nel mio agire, il mio amore messo in azione. Osservo Anellodebole, ciò che ho costruito e trovo altri problemi di comunicazione. Come in alto così in basso diceva il principio di compensazione e noto nel macro le stesse dinamiche del micro: isole separate che non collaborano, ma passano il tempo a cercare di avere ragione più che a dialogare per scoprirsi sotto lo stesso mantello stellato. Anellodebole non è solo un'associazione per me, è stato un modo di vivere, dalla vita quotidiana alla progettazione, e oggi mi accorgo che questo mio moto non è stato totalmente condiviso e mi chiedo quando siamo stati folla, quanto è stata persa la volontà individuale. Ciò che so per certo è che la mia strada dipende solo da me e dalle mie scelte e che la vera guerra è dentro di me, il conflitto agisce in me ogni qual volta non mi apro al dialogo tra le parti che mi abitano. Ho scritto un brano per ricordarmi di tutto questo: "Abbi fede" e con questa fede verso l'essere umano medito la mia azione di padre, il mio ruolo di padre, non solo verso mio figlio, ma anche nei confronti delle mie idee, dei miei sentimenti, dei miei desideri. C'è una strada della gioia, la collina me la racconta ancora e nei miei ricordi c'è anche il mare, torna sempre attraverso le esperienze, i ricordi da bambino, quando leggero giocavo a fare il "morto a galla", quando poi mi tuffavo e tornavo a costruire castelli di sabbia. Sono certo perchè è già da tempo che ho scelto di non combattere contro i mulini a vento, metterò le mie energie per creare e costruire nuovi ponti per parlare di amore, per contemplare la collina con gli amici di ieri e quelli di domani, organizzerò feste silenziose per guardare le stelle e condurrò mio figlio fino a che non prenda la sua strada, così che possa realizzarsi, realizzandomi, realizzando l'essenza del mondo in cui ogni essere unico brilla dal proprio posto nell'universo.
Lorenzo: Mi pongo ascoltando ciò che arriva e mettendomi in discussione. Ogni conflitto è interiore e la comunicazione è l’arma bianca più potente che ci sia.
Vincenzo: La guerra fa schifo. E' la più grande umiliazione per tutto il genere umano. Non c'è molto da dire in merito. Non riesco però a separare ciò che accade nel mondo con quello che mi succede ogni volta che la mia quotidianità mi mette in condizioni conflittuali (subendo o agendo un potere). Non riesco altresì a separare un conflitto nel mondo da tutti gli altri. Cerco, cioè, di conoscere la radice comune che pervade le esperienze conflittuali, private e collettive. Certo è che adesso mi ritrovo, ragionando e sentendo in questo modo, in una "empasse di coscienza". Come è "giusto" posizionarsi rispetto alle atrocità in corso (da mille anni) in Palestina? C'è un modo "giusto"? E' una questione di "intensità" dell'azione che si compie? Forse di "efficacia"? Battiato sosteneva che un monaco zen che medita su una cima sperduta dell'Himalaya sta contribuendo al benessere dell'umanità. Mentre Mejerchol'd interrompeva le sue lezioni di teatro per andare nelle barricate durante la rivoluzione Russa. In questa polarità spesso mi sento in mezzo, e non mi piace. I "tiepidi" , come suggeriscono i vangeli, non contribuiscono al mutare delle cose. Intensificherò una delle due posizioni (nelle forme a me affini). Facendo una scelta il più vicino possibile al connubio "IO-MONDO"








